La mia carriera

Ho cominciato ad allenare a softball nel 1990. In realtà, il mio "primo contatto"con la palla soffice è stato nel 1987, per le finali scudetto del campionato di serie A. Con la radio (Onda Emilia) Riccardo Schiroli ed io decidemmo di seguire in diretta le partite casalinghe dell'allora Sinco Parma, in finale contro la Lazio di Tonino Micheli.
Riccardo Schiroli
Portammo fortuna a Parma, dove la Sinco vinse due gare. Non tanta a Roma, dove la Lazio, vincendo tre partite, si portò a casa lo scudetto.
Il seme della passione però era piantato, e nel 1988 e nel 1989 seguimmo in prima persona il campionato della Sinco prima e Robuschi poi, diventando anche gli addetti stampa della società. Arrivarono due scudetti, che resteranno gli unici della storia del softball parmense.
Nel 1989 Parma organizzò la finale di Coppa dei Campioni. Forse qualcuno ricorderà allo Stuard uno speaker "un poco" di parte, e lo spettacolo organizzato con lo schermo luminoso a fondo campo, uno dei primi dell'epoca: fu un'idea nostra, e lo speaker ero io. La Coppa però restò in Olanda, vinta dal Terrasvogels.
Quelli erano gli anni della Chicco Pisi Sport Organization, in realtà Pisi, Schiroli ed io, dietro a cotanto squillante nome. Portammo a giocare in Italia giocatrici americane, di livello assolutamente altissimo. Ferrieri, Van Kirk e O'Connor a Parma, Van Wyk e Jones a Azzano Decimo, Delp a Bollate, Munn a Saronno....
C'era veramente da divertirsi.
Volevo però andare in campo, sentivo che quello era il mio mondo. E così, feci il corso da tecnico. Volevo allenare.
E allora allenai.

SOFTBALL - PRIMA PARTE

Mi rivolsi a Mino Catuzzi, presidente della Crocetta Softball, e lui mi disse che era d'accordo con me, la mia strada era in campo. Di fatto, fu il primo in assoluto che ebbe fiducia in me, e gli sarò grato in eterno.
Mi disse che alla Crocetta era meglio non stare, al momento, ma che mi sarei andato a fare le ossa a Collecchio, in serie B, come coach. La Crocetta Softball aveva stretto un accordo di collaborazione con il Collecchio, con l'allora dirigente Soncini. E così, sarei stato l'uomo Crocetta a Collecchio.
Dissi di sì (a Mino non si poteva dire altro), e andai.
Era il 1990.
La squadra era allenata da Barbara Mendogni, ed io ero il suo secondo. Era una squadra con alcune giovani molto interessanti, ed una parte più esperta che dava esperienza. Ci piazzammo secondi, dietro il Parma, che era nettamente più forte di noi, ma fu molto positivo, visto che la società all'inizio del campionato temeva di retrocedere.
La semifinale la vincemmo contro la Castionese, una squadra friulana. Non sapevo, allora, che dall'altra parte, come coach, c'era un certo Andrea Marcon, che ritroverò diversi capitoli dopo della mia carriera.
Alla fine dell'anno, la squadra si dissolse. La Mendogni non aveva la fiducia della società, e la squadra non aveva fiducia nella società, e questo portò alla fine. Fedele all'incarico che mi era stato dato, e fedele al fatto che le giovani giocatrici talentuose vanno portate a livelli più alti, consigliai fortemente Catuzzi alla fine della stagione di portare a Parma le giovani migliori. E allora, arrivarono a Parma Lucia Dondi, Elisa Chierici e Alessia Marchesi, che restarono nel roster parmigiano per diversi anni a venire.
Catuzzi mi chiamò a Parma. Mi disse che ero pronto per affrontare, come coach, la serie A. E così, nel 1991, mi ritrovai a vestire quella casacca che mi aveva portato a seguire il softball, quella del Parma.
Paolo Rizzardi
Il manager era Paolo Rizzardi, e l'altro coach la moglie, Renata Giansanti, che a sua volta era stato il manager dei due storici scudetti di tre anni prima.
La squadra era completamente nuova rispetto a quella che aveva dominato negli anni precedenti. C'era stata la fusione con l'Aran Group, dopo anni di derby di fuoco, e l'inserimento delle giovani collecchiesi. Le straniere erano cinesi, non una novità, visto che la prima squadra a portare cinesi in Italia era stata proprio l'Aran di Fabretto, ma sicuramente una notevole sterzata rispetto agli anni precedenti.
E così tornò in Italia Hua Jie, dopo l'anno trascorso all'altra sponda parmigiana, e arrivò Sun Yue Fen. Parlavano solo cinese. Capirsi era, immaginerete, un casino.
Nessuno immaginava che quelle due, a vent'anni di distanza, sarebbero state ancora in Italia, e avrebbero entrambe giocato con la maglia azzurra. Proprio non lo immaginavamo.
Non fu una stagione trionfale. Perdemmo due partite chiave in regular season col Bollate, che avevano valore anche per i playoff, e così uscimmo subito dalla competizione.
Fu quell'anno che andammo a giocare in Siberia. Sì, avete letto bene, proprio in Siberia. Catuzzi organizzò una trasferta a Krasnojarsk, a 100 km dal confine con la Mongolia. Il softball praticamente, non sapevano neanche cos'era, ma come esperienza di vita, fu impagabile.
Al Pezino
La società l'anno dopo decise di cambiare strada ancora, e ingaggiò un manager americano. La scelta cadde su Al Pezino, un californiano cittadino del mondo, affiancato da Debi Jones, una ex giocatrice portata in Italia anni prima dalla Pisi Organization (ad Azzano). Il terzo coach ero io. Più che altro, avevo funzioni di interprete, ma vista la mia fame di imparare, quell'anno fu una notevole palestra, anche se praticamente nulla andò per il verso giusto.
Da Pezino ho imparato un approccio più scientifico agli allenamenti rispetto a quello che avevo visto prima: programmava tutto, ed era sconvolgente conoscendolo, visto che era un po' ...perso, come persona.
Ken Ravizza
Pezino fu il primo che mi parlò e cercò di applicare il punto di vista psicologico al gioco. C'era stato sì uno psicologo che affiancava la Robuschi negli anni dello scudetto, ma quelle teorie, pur non essendone esperto, mi lasciavano perplesso. Pezino invece applicava direttamente al gioco alcune nozioni, che anni dopo, sentii ripetere da Ken Ravizza ad una memorabile coach convention. Ravizza cambiò totalmente il mio modo di affrontare i giocatori o le giocatrici, ma il primo che me ne parlò fu Al Pezino.
Essendo un innovatore, in un ambiente conservativo, Pezino al Parma ebbe vita cortissima e durissima. Arrivò alla fine dell'anno per miracolo, con mezza squadra contro, e soprattutto una società che ne parlava male apertamente e non lo difendeva mai.
Decisi che il mio tempo al Parma era finito, e me ne tornai a Collecchio, dove intanto, dopo la fine della squadra della Mendogni, avevano rifondato e erano ripartiti dalle giovanili. Mi affidarono, come manager, la squadra juniores. Era il 1993.
Trovai una squadra molto interessante, con diverse giovani forti e motivate. Mi coadiuvava come coach Enrica Caffarra, anche lei reduce dalla Crocetta Softball, lato giovanili.
Cercai di impostare il lavoro secondo quello che avevo imparato: allenamenti preparati in anticipo, rapporto molto attento con le giocatrici, impostazione del gioco che piaceva a me, veloce e aggressivo sia sulle basi che in difesa.
Mi scontrai in un qualche modo, con la diversità che c'è sicuramente dal lavorare con una serie A e con una giovanile: la programmazione non era facile, quando la gente non era tutta puntuale, quando alcune non venivano senza avvisare prima, ecc. ecc. Mi rimboccai le maniche e cercai di portare un po' di mentalità positiva, e credo di esserci riuscito, visto che molte di quelle giocatrici giocarono per tanti anni, e qualcuno gioca ancora, ad esempio Danna Balestracci nel Collecchio di serie A2 attuale.
Alcune arrivarono anche in serie A, come Marina Saccò (dal 96 al 98, a Parma e Langhirano), che arrivò a Collecchio da Sala Baganza, e altre restarono nell'ambiente per qualche tempo, come Sara Cristoni, Sara Savina e Sara Sandolfini.
Una bella iniziativa fu andare in Olanda a fare un torneo giovanile, a Breda ed Oosterhout, dove restammo per una settimana. Eravamo l'unica squadra giovanile, in mezzo ad altre tutte seniores, e ci piazzammo terzi. Fu una soddisfazione immensa.
Anche quella avventura però volgeva al termine. Qualche incomprensione di troppo mi spinse a cambiare aria, ma non di tanto. Perchè restai a Collecchio, ma cambiai campo. Passai al baseball.

BASEBALL

Avevo ovviamente giocato a baseball da giovane, soprattutto nel Montebello. Ero un esterno, qualche volta ricevitore, bravino soprattutto in battuta, non tanto in difesa.
Giovanni Berciga
Come tecnico avevo conosciuto solo il softball, però. E con curiosità accettai l'offerta del Collecchio. Soncini mi chiese di prendere la squadra che avevano in serie C, un gruppo con molti giovani, qualche giocatore più esperto, con l'obiettivo di preparare i più giovani ad un eventuale salto, negli anni successivi, alla serie A di Collecchio.
Come coach, trovai Giovanni Fossa, reduce da diverse stagioni in prima squadra, che veniva anche schierato come giocatore.
Posso dire adesso a distanza di anni, che sono molto fiero di avere allenato quella squadra, e di avere raggiunto sul campo la salvezza al primo anno, allo spareggio di Brescia contro il Cernusco sul Naviglio.
In quella squadra c'erano giocatori più esperti come Giovanni Berciga e Alessandro Sacchi, giocatori portati al baseball tardi, ma con grande volontà, come Rinieri e Famà, giovani che poi resteranno in campo tanto tempo, come Ferrarini, Marchignoli, Puglia, Dorante, Romanini. Poi, "vecchietti" come Fossa stesso e Rosati ci permisero di fare il break.
Ricordo un paio di partite lanciate da Rosati: irretiva le povere squadre di C malcapitate con una tonnellata di knuckle balls, le "palle ferme", senza rotazione, che cambiano direzione 6-7 volte prima di arrivare al piatto.
So che c'erano arbitri all'epoca che chiedevano di venire ad arbitrare noi, perchè si divertivano un mondo a chiamare le "sfarfallate" di Paolo.
Restai tre anni, con Fossa a Collecchio. Guidammo sia la serie C che la Juniores, e facemmo crescere un po' di giovani.
Quel Collecchio, pur con qualche limite di talento, non giocava un brutto baseball. Eravamo sufficientemente aggressivi, e sulle basi cominciammo a far vedere qualcosa. Ricordo una partita ancora adesso, vinta a Collecchio contro gli Athletics di Bologna, con uno squeeze all'ultima ripresa, eseguito perfettamente da Pezzi.
Mi girai verso il dugout, e tutti esultavano. Uno guardava me, era Schiaretti, che mi gridò, grande chiamata, mister! Me lo ricordo come se fosse adesso, anche l'emozione che provai.
Sandro Rizzi
Dopo Collecchio, pensai che era tempo di tornare un po' vicino a casa. Mi chiamò lo Junior, ed io abitavo a 500 metri dal campo di via Parigi. Avevano bisogno per la Juniores e per la serie A2, come coach di Sandro Rizzi. Conoscevo Rizzi di fama, e accettai in circa tre secondi. Grande scelta, fu quella.
Grazie a Sandro, imparai tantissimo, sia dal lato tecnico che da quello umano.
Sandro è fenomenale. Non conosce la pressione, o meglio, la conosce, ma non lo dà a vedere. E' sempre positivo, ha sempre la battuta pronta, è il compagno ideale da avere dalla tua parte in situazioni di pressione e di decisioni veloci da prendere.
Lo scudetto ad Anzio
Arrivammo allo Junior insieme, io da Collecchio, lui dalla Crocetta: praticamente il diavolo e l'acqua santa. Ci conoscevamo già, un po' perchè a Parma è impossibile non conoscersi, un po' perchè Rizzi aveva avuto un bar per tanti anni, e quello era il ritrovo di tutto, dico "tutto",  il baseball parmense e parmigiano.
Il 1998 fu un anno splendido. La mia prima serie A2 in panchina, un livello di baseball più che decente, e una splendida cavalcata con la Juniores, che culminò con lo scudetto, vinto ad Anzio (campo neutro...) contro il Nettuno, con una fantastica vittoria per 6-3.
Quello che sono stato come manager e come tecnico, lo devo al 80% a Sandro Rizzi.
In quegli anni, lo Junior aveva uno staff tecnico impressionante: oltre a Sandro, c'erano Augusto Savignano, Giacomo Bertoni, Edoardo Gastaldo. Come usavo dire, l'unico che non capiva di baseball, ero io.
Mario Mascitelli
Oltre allo scudetto, è impossibile dimenticare le partite contro i "vecchi" del Castenaso (Messori, Martelli, Matteucci) mentre noi avevamo uno stuolo di rookies impressionante; o gli scontri proprio col Collecchio, che ricordo ci rullò pesantemente una sera a casa loro, da vergognarsi; o le partite con la Farma Crocetta, che Rizzi sentiva in modo particolare, da star male fisicamente.
Al terzo anno, Rizzi se ne andò, e subentrò Mario Mascitelli, anche lui allenatore-giocatore. Il manager era lui, ma di fatto in partita la squadra la guidavo io. I giovani di due anni prima ormai erano giocatori di livello, e quella squadra seppe farsi valere, togliendosi diverse soddisfazioni.
Il contatto con Mascitelli, che aveva alle spalle una notevole carriera come giocatore in tante squadre di serie A, mi portò a conoscere una serie di espedienti e di armi da utilizzare come strategia e come tattica, con le quali entravo in contatto per la prima volta.Grazie a lui, conobbi Holmberg, che venne a Parma a parlare un poco ai nostri lanciatori, e imparai diverse cose sul lancio del baseball, che poi approfondii alla Convention nella quale fu ospite Brent Storm, il pitching coach dei Kansas City Royals, che mi aprì tutto un mondo nuovo nel campo della meccanica del lancio di baseball, che applicammo allo Junior, soprattutto con Simone Leoni.
Arrivò così la fine del 2000, ed era di nuovo ora di cambiare aria.
Il logo del Sala Baganza
In quegli anni, il Sala Baganza era in serie B, e aveva la sfortunata caratteristica di arrivare sempre secondo, tanto che la promozione in A2 ormai per i gialloblù era praticamente un miraggio.
Arrivai a Sala Baganza nel 2001, in qualità di pitching coach. I lanciatori erano Jenny Silvestri, Davide Fornasari, Matteo Nardi e Tito Mulazzi. Mi resi conto immediatamente che il "materiale" a disposizione era di assoluto livello, e che la serie B era del tutto stretta per quella gente.
Il manager era Mauro Orlandini, uno che a Sala ci ha passato la vita praticamente, ed era un'istituzione.
In campionato finimmo, inutile chiederlo, secondi, dietro all'Oltretorrente.
Leonardo Zileri
Alla fine del Campionato, Orlandini diede le dimissioni, e se ne andò. La società fu presa alla sprovvista, e in attesa di trovare un altro per l'anno successivo, mi affidò la squadra per la Coppa Italia, che chiudeva la stagione.
Fu fortuna, fu bravura, fu un po' tutte e due, il Sala Baganza quella Coppa Italia la vinse, superando dapprima l'Oltretorrente, poi l'Avigliana, e in finale, una drammatica finale a Collecchio, l'Alpina Trieste, con una strepitosa vittoria al cardiopalma per 15-14, grazie anche ad un triplo di un giovane virgulto salese, Leonardo Zileri.
I giocatori del Sala si resero conto che vincere era meglio che arrivare secondi, e durante l'inverno, dopo che la società quasi incredula mi confermò quale manager, strinsero con me un patto d'acciaio: dovevamo portare il Sala in A2.
Simone Leoni
Una grossa mano ce la diede Simone Leoni, che memore del buon lavoro fatto allo Junior, decise di venire con noi a Sala. Un lanciatore come lui, in B, insieme a quelli che a Sala c'erano già, era decisamente troppo per le altre squadre.
Il campionato lo vincemmo, con dei playoff perfetti, battendo 3-0 sia il Castenaso che il San Martino Buonalbergo. In quella finale in campo c'erano Zileri da questa parte, e Corradini e Bertagnon dall'altra, ossia gran parte dello scudetto Cariparma della stella, quello appena vinto.
Quel Sala Baganza, insieme a quello dell'anno dopo in A2 (arrivarono Ferrari e i fratelli Comelli a rinforzarci ulteriormente) resta la squadra che ho allenato che ha giocato il baseball più vicino al mio ideale.
Eravamo molto forti sul monte, aggressivi in difesa (Zibana e Ugolotti girarono decine e decine di doppi giochi), era difficilissimo farci più di uno-due punti per inning, e avevamo un attacco che non perdonava. Giocatori come Fontana (il capitano), Negrini, Zibana, Ghirardi erano impietosi. Sulle basi il giovane Ugolotti e Fanfoni ci garantivano velocità.
Eravamo forti, e secondo me in quegli anni, ci si divertiva a vedere baseball a Sala Baganza.
Max "Tomo" Ferrari
Anche di quella squadra sono molto fiero, e devo dire che è sicuramente la squadra che più mi è rimasta enl cuore. Ammetto, senza ipocrisie, che il risultato del Sala ancora adesso è il primo che vado a vedere, e esulto ancora in caso di vittoria. Non sono andato tantissimo a vederli, dopo che sono andato via, ma ammetto che sì, è per motivi di tempo, ma anche perchè, con ogni probabilità, mi commuoverei.
Come detto, l'anno dopo in A2 (siamo al 2003) arrivarono Ferrari da Collecchio e i fratelli Comelli da Codogno, salesi doc che erano in giro a giocare a più alti livelli.
Arrivammo terzi, al nostro primo anno di A2. Qualcuno lo considerò un anno negativo, ma non ha idea di quello che dice. Fu un miracolo.
Arrivammo in A2 senza che nessuno, a parte tre giocatori, avesse idea di cosa lo aspettasse. Ricordo la prima, in casa col Grosseto. Perdemmo 2-1 e 1-0. Partite stupende, giocate con un freddo allucinante. Ma perdemmo. Perdemmo le prime cinque partite, tutte di un punto. Una al ventesimo inning, contro il Godo. Venivamo da un anno dove avevamo vinto facile, ma ora c'era da combattere. Combattemmo, e cominciammo a vincere.
Vincemmo dua partite in via Parigi contro lo Junior (homer al decimo di Zileri), vincemmo due partite a Collecchio (e restituii al Collecchio quella rullata subita anni prima), vincemmo con il Trieste, a Imola, a Grosseto, contro squadre che avevano la A2 nel sangue e che sapevano combattere.
Alla fine però, ci fu delusione. A Sala ero da solo, nessuno volle venire ad allenare con me. Infatti i miei "coach" erano i giocatori stessi, che si strinsero intorno al progetto, e senza i quali non sarebbe stato possibile ottenere nulla.
La società scelse strade alternative, ed io me ne tornai a Parma.
Durante una cena della squadra di softball amatoriale, un vecchio amico, Davide Tiberti, mi fece una proposta indecente: ma perchè non torni al softball?

SOFTBALL - SECONDA PARTE

Davide Tiberti
Durante quei quasi dieci anni passati al baseball, il panorama del softball a Parma era cambiato. La gestione della Crocetta Softball era finita l'anno prima, dopo alterne vicissitudini, ed era subentrata l'Oltretorrente, la società di Andrea Paini, che aveva rilevato i diritti.
Paini aveva contattato Tiberti, che aveva allenato a Collecchio e a Langhirano, ed erano a caccia di un manager.
L'avevano trovato.
Accettai con una notevole incoscienza, devo dire ripensandoci. Ero fuori dal softball  da tanto tempo, tanto che tornai e trovai le palline gialle, una base in più in prima, e due strani animaletti chiamati DP e Defo.
Tiberti fu fondamentale, e non gli sarò mai abbastanza grato: mi tenne lezioni su lezioni sulle differenze di regolamento, sull'uso di DP e Defo, sui cambiamenti intervenuti negli anni, e sul fatto di stare tranquillo con gli arbitri, cosa che, vista adesso, è indubbio che mi fa sorridere.
La squadra era tutta da fare, e quel poco che c'era, in termini di numero, erano giocatrici parmigiane sgonfiate e disilluse dagli ultimi anni targati Crocetta Softball, che capii essere stati devastanti.
Ci rimboccammo le maniche, e tentammo l'impresa. Portammo a Parma giocatrici da fuori, visto che le parmigiane non tesserate Crocetta non volevano neanche sentirci nominare, visto il passato.
Albero d'Argento 2004
E allora arrivarono Santucci da Massa, Zucchermaglio e Girelli da Verona, Bertoni da Sala Baganza, e le straniere, Angela Graham dal Texas e Upu Lote dalla Nuova Zelanda.
Angela si rivelò essere un lanciatore di ottimo livello, non molto costante come rendimento, ma con alcuni tipi di lancio (soprattutto il drop) al di fuori della norma. Purtroppo non era un battitore, neanche sufficiente, e questo gli costerà la riconferma. Il nostro lineup era troppo inesistente per sopportare una straniera che non batteva.
"Lubie" era una autentica fuoriclasse, dentro e fuori dal campo. Interbase di origine maori, si fece subito voler bene alla prima di campionato, quando si beccò fra la prima e la seconda partita una pallinata in bocca, sputò sangue per diversi minuti, ma non ne volle sapere di sedersi fuori. Giocò, fu la migliore in campo, e ci trascinò alla vittoria. Chapeau.
Graham, Lote, Mussi (di spalle)
Se il buongiorno si vede dal mattino... Quella stagione cominciò a Marcheno con il primo lancio spedito in fuoricampo da Barbara Mussi. E infatti fu pienamente soddisfacente. Arrivammo quinti, mancammo per un Pelo(!!) la qualificazione ai playoff, e pagammo senza dubbio l'addio a metà stagione di qualche elemento che poteva lasciarci fare il salto di qualità.
Quell'anno, accettammo di giocare (unica squadra in A1) due amichevoli con gli Stati Uniti Campioni di tutto, che erano in Italia per preparare le Olimpiadi.
Fu come realizzare un sogno, sia per le giocatrici, che per noi. Eravamo sullo stesso campo con gente che aveva e stava facendo la storia del softball. Erano gli Stati Uniti di Lisa Fernandez, di Jennie Finch, di Christal Bustos, di Cat Osterman.
Beccammo 16-0 e 17-0. Ma vuoi mettere la soddisfazione nella prima partita, con Graham in pedana, di stare 0-0 a fine secondo, con Angela che aveva messo K sia Fernandez che Bustos?
Quella stagione finì, la società mi confermò con tutti gli onori, e cominciammo a preparare l'annata successiva.
Confermammo, secondo le regole di allora, il cartellino di Lote, entro il 31 gennaio. Il 3 febbraio ci comunicò che non sarebbe potuta tornare in Italia. Avevamo sprecato un visto. Dovevamo capire già allora che buttava male...
Albero d'Argento 2005
Non potevamo confermare Graham, vista la carenza in battuta, a maggior ragione dopo l'addio di Lote. Cercammo da tutte le parti un lanciatore che potesse battere, ma purtroppo tutti avevano problemi.
La scelta alla fine finì su Katie Shimon, da Iowa State, che aveva numeri impressionanti in battuta e così così come lanciatore. Come interbase, prendemmo la via italiana, portando da Firenze Giulia Bellucci, che era l'interbase della Nazionale Juniores. L'altra straniera era della Rep. Ceca, il loro capitano, Sarka Koprivova, che era un catcher-prima base.
Come copertura al fatto che non sapevamo in pratica se avremmo avuto una lanciatrice straniera, arrivò all'ultimo anche Mara Papucci da Massa, e alla fine fu decisivo per salvarci.
Katie Shimon
Non eravamo la squadra dell'anno prima. E ce ne accorgemmo con un girone d'andata nel quale vincemmo una sola partita. La squadra non capiva dove sbagliava e anche noi eravamo in alto mare.
Decisi per la cura forte. Cambiai di ruolo alle straniere, togliendo la pedana a Shimon, e inventandomi Koprivova come terza base.
Katie era un battitore devastante, e scoprimmo che era anche un prima base veramente di assoluto livello. E lì la spostammo.
Sarka non sapeva allora di essere un ottimo terza base, ma con qualche remora la convincemmo a provare.
Beh, negli anni successivi tornò a giocare in Nazionale come terza base, e vinse poi una Coppa Campioni come difensore dell'angolo caldo, con gli Sharx di Dorbirn, squadra austriaca.
L'umiltà e l'attaccamento alla squadra di quelle due meravigliose persone alla fine furono decisive.
Ci salvammo all'ultima giornata, dopo essere stati ultimi per tutto l'anno. Nessuno ci poteva credere. Festeggiammo come se avessimo vinto lo scudetto.
Sarka Koprivova
Negli anni successivi, Mara Papucci e Valentina Tarricone vinsero lo scudetto a Caserta, e Andrea Montanari, la giovanissima che Davide Tiberti volle a tutti i costi portare a Parma da Reggio Emilia, diventerà una delle migliori giocatrici italiane, ed esterno centro titolare della Nazionale Italiana.
Qualcosa di buono anche da quell'anno sfortunato è nato, negli anni a venire.
Uscii da quella stagione spossato e svuotato.
Non ero mai retrocesso, nella mia carriera, ma quell'anno mi rendevo conto che avevo un debito con la fortuna, e non avevo più benzina. Decisi di smettere, ne avevo avuto abbastanza.
Ma non sapevo ancora cosa mi aspettava. Un altro vecchio amico sbucò dal nulla, e mi fece un'altra proposta indecente: Gianluca Magnani.

ARBITRO

Gianluca Magnani
Quell'inverno, mi venne a parlare Magnani. Lo conoscevo da tempo, già da quando allenavo a baseball (l'altro sport, come usava dire). Era, senza dubbio, e lo è ancora adesso, il miglior arbitro italiano di softball, probabilmente anche il migliore d'Europa, e uno dei migliori cinque al mondo. Mica niente.
Quell'inverno mi chiese se mi sarebbe andato a genio fare il corso da arbitro. Subdolamente, mi disse che era una buona occasione per vederci ogni tanto a berci una birra, che una ripassata al regolamento era sempre utile, e che alla fine bastava provarci, e se non mi andava, non sarei andato avanti ad arbitrare.
Dissi che andava bene, ma che non garantivo se avrei continuato, non sapevo se mi sarebbe piaciuto, non sapevo se mi sarei divertito.
A dir la verità, dentro di me sapevo già che mi sarebbe piaciuto provare. Era l'unico aspetto del gioco che non avevo mai conosciuto, e mi attirava. Ero stato dirigente, giornalista, giocatore (da molto giovane), allenatore, sia di baseball che di softball: mancava l'arbitro.
E così accettai, e feci il corso provinciale per diventare arbitro.
Avrei arbitrato a livello locale, partite giovanili. Dissi subito che avrei fatto softball, un po' per riconoscenza a Gianluca, un po' perchè sapevo di preferire il softball al baseball, questo da sempre.
Corso arbitri A2 del 2007
La prima partita in assoluto che arbitrai fu però una partita di baseball ragazzi, a Langhirano, fra i locali e l'Oltretorrente: il mio mentore fu Ulpiano Massari Gozzi, che mi riempì la testa di consigli e di raccomandazioni, come ci si aspetta dai padrini.
Andai avanti quindi, e nel 2007 feci il corso di serie A2, insieme con colleghi con i quali diventai anche amico, come Massimo Parri, Sabrina Fabrizi, Nunzia Cimmino, Davide Bergantin e Lino Campesato.
Come istruttori, arbitri che mi avevano sopportato in campo, come Stefano Russi, Fabio Capitoni, e quell'Andrea Marcon, coach di quella Castionese di tantissimi anni prima, oltre a Magnani, ovviamente.
Sono abbastanza fiero di essere stato il migliore di quel corso, la cosa mi piaceva e mi ci stavo applicando con buona lena.
Esordii quell'anno in A2, con un Malnate-Saronno, in coppia con Gianluca. Andò benino, ma di pagnotte da mangiare ce ne dovevano essere ancora tante.
Forlì - Bollate, 2.5.2009, esordio in A1
Ci furono partite buone, altre meno buone, un paio disastrose. Mi rendevo conto però che piano piano prendevo le misure a quel lavoro nuovo.
Una volta, ad Azzano, mi inventai di sana pianta una interferenza. Negli spogliatoi, il collega era un po' in imbarazzo, e non diceva nulla. Lo anticipai: "Non so cosa mi è venuto in mente, ho fatto una cagata".
Credo che il suo rispetto per me quel giorno aumentò un pochino: sapere ammettere gli errori è uno sport che in pochi conoscono.
Mi stavo divertendo, e infatti le soddisfazioni arrivarono: tanto che, dopo due anni, il 2 maggio del 2009, feci il mio esordio in serie A1, sempre in coppia con Magnani. Era un Forlì-Bollate, mica niente. Mi ritrovavo ad arbitrare coach contro i quali giocavo solamente 4 anni prima. Ammetto che quel giorno un po' agitato lo ero.
Arbitrare è una storia completamente diversa da tutto quello che avevo fatto nei venti anni precedenti. Diverso modo di approcciare la gara, grande preparazione mentale e regolamentare, relativamente poca quella fisica. Pochi allenamenti, molte partite. Situazioni da affrontare sempre in maniera diversa. Piccoli passi avanti ogni volta.
Devo ammettere che c'erano aspetti del gioco che dopo vent'anni ancora non conoscevo. Adesso li conosco.
A capo con Alice Fiorio, de La Loggia
Adesso so che c'è una meccanica arbitrale, un modo di muoversi fisso e variabile a seconda delle situazioni, e che quella meccanica la devi conoscere a menadito, come il regolamento, perchè altrimenti rischi di essere preso a pallate.
Ho scoperto che se un giocatore sbaglia, c'è un compagno che lo consola; se un allenatore sbaglia, c'è il coach che gli fa coraggio; se un arbitro sbaglia, deve trovare le motivazioni dentro da solo, perchè il collega ti può parlare con gli occhi, ma solo negli spogliatoi ti potrà parlare liberamente, e quindi là fuori, sei solo.
Ho scoperto che nella stessa partita puoi essere accusato di essere venduto prima da una squadra e dopo tre minuti dall'altra, senza che nessuno noti la distonia.
Strike Three, OUT.
Ho scoperto che molto pochi conoscono bene il regolamento.
Ho scoperto che ogni partita ci sono almeno tre-quattro basi saltate, e nessuno se ne accorge.
Ho scoperto che a volte ti senti di nonaver arbitrato bene, ma tutti sono contenti, e a volte pensi di aver fatto un discreto lavoro, e sono tutti incazzati come bestie.
Quando ho cominciato, avevo un piccolo obiettivo: mi sarebbe piaciuto arrivare come arbitro là dove ero arrivato come allenatore, ossia in A1.
Beh, l'obiettivo l'ho raggiunto, e anche superato: alla fine del 2009, ho arbitrato una partita di playoff scudetto, sulle basi, San Marino-Caserta. Nei playoff, come allenatore, non c'ero mai arrivato.
Quindi, davanti a me c'è l'ignoto.
Non so fino a quando arbitrerò, ho 46 anni e bisogna fare i conti anche con l'anagrafe, ma l'entusiasmo è ancora tanto.
Nonostante gli anni passati, l'amore e la passione per questo sport è ancora altissima, nonostante tutto.
Ci sono giornate che vorresti cancellare e che ti allontanano: quella volta ad Azzano, un'altra serata a Saronno, un pomeriggio pesantissimo a Livorno.
Poi però ci sono partite che ricordi con piacere, o per la bellezza della partita ed il piacere di esserci dentro, o per le emozioni che hai provato, come un paio di volte a Macerata, come le finali di A2 a Caronno e a Azzano, come i playoff di Reggio Emilia.
E allora si va avanti. Ma ogni volta che si entra in campo, si ricomincia da capo.
Play ball!